Come avvicinarsi allo studio del diritto cinese. Intervista a Ivan Cardillo del 3 aprile 2023.
Sono Gloria Zilio, una studentessa magistrale di Governance dell’Emergenza dell’Università di Verona e mi avvicino ora al mondo cinese e alle sue sfaccettature. Presa da un progetto universitario e dalla mia personale curiosità, ho scelto di approfondire le mie conoscenze a riguardo.
Ho voluto addentrarmi nel sistema giuridico cinese per conoscerne le dinamiche, per capire il motivo di determinate decisioni strutturali dell’ordinamento. Ritengo affascinante come la storia dell’impero cinese e l’avvento del socialismo abbiano elaborato valori e principi fondamentali su cui ancora oggi il paese poggia.
Il mio progetto mira ad analizzare oggettivamente l’ordinamento giuridico cinese, partendo da un quadro storico iniziale, per poi passare ad un focus relativo alla situazione delle libertà e dei diritti umani nel paese.
Le mie perplessità si basavano soprattutto su come i cittadini cinesi potessero accettare un sistema giuridico basato principalmente sul monopartitismo, dove i valori collettivi superassero l’esigenza dei diritti individuali. Ecco il primo esempio di un tipico errore che facciamo noi occidentali, spiegato anche durante l’intervista, ossia quello di considerare solo i nostri valori come universali e come base per determinare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Questa visione collettiva è determinante nello spiegare il modello cinese, sia in ambito quotidiano, sia nella tutela dei diritti.
Mi è sembrato opportuno e interessante cercare una prospettiva di chi, da esperto, può permettersi di commentare e dare il proprio punto di vista a riguardo. Per questo motivo ho colto l’occasione di fare qualche domanda al professor Ivan Cardillo, il quale ha potuto darmi una prospettiva più comprensiva della realtà cinese, ponendo l’attenzione su elementi per niente scontati da analizzare. È anche per questa ragione, infatti, che ho voluto intervistare il professore, in quanto mi sentivo ancora troppo “chiusa” nello sguardo verso l’Oriente, non dando sufficiente importanza ai capisaldi e ai valori di questa cultura che, al contrario, ne determinano il diritto.
Il nostro sguardo verso l’Oriente è sempre pronto a critiche e perplessità.
Secondo lei, qual è l’ostacolo principale che abbiamo noi occidentali nel comprendere la realtà cinese?
L’ostacolo principale riguarda una questione metodologica, nel senso che la tendenza che si ha è quella di proiettare le nostre categorie mentali nell’esperienza giuridica cinese. Questo perché, spesso, chi fa comparazione è cresciuto soprattutto nel laboratorio della comparazione all’interno dell’Europa o dei sistemi giuridici occidentali. E quando si inizia a studiare diritti “diversi”, come quello islamico, africano o, appunto, cinese, ci si aspetta di ritrovare le proprie categorie, e si finisce nel creare delle forzature. Questa tendenza è chiamata “orientalismo giuridico”, ed è legata al modo in cui la cultura europea ha conosciuto l’Oriente, cercando di dominarlo, fino a concepirlo come luogo in cui risiede il “diverso”, l’ “altro”. Chiaramente questo comportamento porta con sé i retaggi di una cultura coloniale.
Quindi, la difficoltà è comprendere il sistema cinese nella sua autenticità. A questo si aggiungono due aspetti insiti nell’esperienza giuridica cinese, che è esperienza di assorbimento e di assimilazione delle categorie occidentali, e di rinnovamento della tradizione. Un aspetto è legato alla comparazione giuridica che è alla base della modernizzazione del diritto. Un altro aspetto riguarda lo studio della storia del diritto. La Cina segue un percorso di assorbimento delle categorie occidentali, ma non rinuncia alle proprie caratteristiche storiche.
Il processo riformatore iniziale del sistema giuridico cinese non ebbe effetti immediati. La prima fase fu complicata e vide diversi conflitti culturali dove, per una grande parte della popolazione, il diritto tradizionale doveva sopravvivere integralmente.
Fino all’età moderna, la storia del diritto cinese è caratterizzata dalla coesistenza e dialettica tra la scuola dei legisti e quella dei confuciani. Da un lato prevaleva il “fa”, ovvero la necessità di leggi codificate a cui sottostare; dall’altro canto prevaleva il “li”, l’osservanza di regole rituali e morali per vivere in armonia. Il rapporto della Cina con il passato e la sua storia è sicuramente molto forte.
Quale crede che sia il maggior contributo dato dal Confucianesimo? Mi vengono in mente i valori dell’ordine e dell’organizzazione sociale.
Il Confucianesimo continua ad essere presente, soprattutto in alcuni aspetti culturali che influenzano la vita del diritto e la vita sociale. La questione è declinarli in termini e con un linguaggio moderni. Il Confucianesimo nasce con Confucio, ma poi evolve nel corso dei secoli con diverse generazioni di studiosi confuciani. Ecco, servirebbe una nuova generazione, moderna, di studi confuciani (che in effetti inizia a prendere forma) per declinare il sapere confuciano in base alle tendenze attuali. Un rinnovamento degli studi confuciani in termini giuridici capace di andare oltre il conflitto Occidente-tradizione cinese è ancora lontano. In questo senso l’approccio culturalista non aiuta.
Uno dei contributi del Confucianesimo è sicuramente il valore della collettività, e l’idea di calare l’individuo all’interno di una rete di relazioni familiari e sociali, pensare l’individuo all’interno di un contesto. Questo lo troviamo soprattutto nel diritto di famiglia, ma anche nel diritto societario.
In aggiunta, una certa idea di morale, di rettitudine continua a sopravvivere. L’idea di una rettitudine legata a dei modelli virtuosi, la necessità che la condotta virtuosa venga modellizzata, codificata, e utilizzata come parametro di riferimento.
Questo lo troviamo a tutti i livelli dell’ordinamento: la condotta ideale del giudice, la condotta ideale del cittadino, la condotta ideale del funzionario, la condotta ideale del Partito Comunista.
Lungo tutta la storia imperiale c’è stata la tendenza a legittimare il potere dei sovrani attraverso il mandato celeste che, a sua volta, poteva essere perduto laddove il sovrano non avesse adempiuto i propri doveri. Quale approccio troviamo oggi a riguardo?
Il mandato del cielo è superato, è una categoria che appartiene al passato.
La legittimazione del Partito Comunista è legata alla storia, e lo dimostra il preambolo della Costituzione.
Il principio di rappresentanza è dato, da un lato, dalla teoria delle tre rappresentanze, e, dall’altro, dal centralismo democratico e dall’idea di un partito al servizio del popolo, unica via per realizzare quel principio socialista per cui il popolo deve essere padrone dello Stato.
Alcuni studiosi, però, guardano al decreto celeste in termini moderni. Fanno ciò per declinare quel potere autoritario, quasi assoluto, del Partito, molto simile ad un’investitura dall’alto. In realtà, la partecipazione civile in Cina c’è ed è forte: c’è una legge elettorale, il sistema della democrazia diretta e indiretta, meccanismi di consultazione e di ricorso amministrativo. Alcune sentenze sono state modificate a seguito di proteste popolari. L’idea di fondo è che il Partito conserva la sua legittimità fintanto che continua a migliorare le condizioni di vita del popolo. Su questo obiettivo si è sviluppata tutta la rivoluzione socialista: liberare il popolo dalla schiavitù e dal colonialismo fino a renderlo indipendente, proprietario dei mezzi di produzione, padrone dello stato e prospero.
Adesso siamo nella fase in cui il popolo è moderatamente prospero. Ci sono delle contraddizioni per cui la Cina è ancora in una fase primaria del socialismo. Questo permette al governo di utilizzare ancora strumenti borghesi accanto a strumenti prettamente comunisti. Ciò significa, ad esempio, che è riconosciuta la proprietà privata come parallela a quella pubblica, che il privato può fare impresa, ecc.
La Cina ha fatto passi avanti nella salvaguardia dei diritti umani rispetto alla prima Costituzione del 1954. Con la revisione costituzionale del 2004, ad esempio, c’è stata un’importante modifica dell’articolo 33 comma 3 che oggi recita: “Lo Stato rispetta e protegge i diritti umani”.
Cosa ne pensa della relazione tra diritti umani e Cina?
È una relazione complessa. I diritti umani in Cina vanno calati in un ordinamento diverso.
Tutte le dichiarazioni che riguardano l’Occidente vogliono essere universali, perché si basano sull’assunto che rappresentino i migliori valori e principi possibili.
In Cina i diritti umani sono riconosciuti e costituzionalizzati.
I nostri diritti umani nascono da un’idea liberale, democratica, di stato di diritto. I diritti umani in Cina si inseriscono in un ordinamento che non è democratico, come lo intendiamo noi, e le libertà individuali, che per noi sono diritti fondamentali, possono essere contratte in nome di un valore collettivo superiore. Questa è la più grande differenza.
Bisogna considerare la Cina nel suo complesso, e valutare tutte le possibili conseguenze di determinate scelte. Per cui, ad esempio, garantire la libertà di sciopero in Cina potrebbe significare paralizzare il paese. Deng Xiaoping lo spiega molto bene in una sua intervista con Mike Wallace. La Cina è una società molto complessa, e il governo ha dovuto stabilire delle priorità, dando preferenza allo sviluppo economico, tramite una rigida attività di programmazione a livello centrale, non senza eccezioni a livello locale.
Il Governo, dunque, parla di “programmare” il rispetto dei diritti umani, poiché garantirli tutti contemporaneamente sarebbe impossibile.
Tradizione cinese e valori socialisti: come sono collegati?
Lei pensi ad un gruppo di giovani in piazza, rivoluzionari, che criticano il regime in corso, e chiedono di importare i valori occidentali. Sono i giovani del 1919 e del 1921, e lì, in mezzo a loro, c’è anche Mao, insieme ai giovani comunisti della prima ora.
Dunque, il primo movimento è quello in realtà di una reazione alla tradizione cinese per portare idee nuove, perché il passato rappresentava una cultura coloniale, feudale, che aveva rischiato di rendere il suo grande paese vittima e colonia delle potenze occidentali e del Giappone. In questo senso si spiega anche la rivoluzione culturale.
Successivamente la tradizione recupera il ruolo che aveva, ovvero un ruolo di base fondamentale su cui inserire elementi estranei legati all’Occidente, con uno scopo accessorio e funzionale. La base e le radici devono essere quelle della tradizione cinese, su cui innestare dei modelli Occidentali. Il Socialismo è un prodotto dell’Occidente. Dagli anni ’80 in poi, assistiamo alla teorizzazione di un socialismo con caratteristiche cinesi.
In generale, se guardiamo alla tradizione e al socialismo, scopriamo che entrambi enfatizzano il ruolo della società, della comunità, a discapito dell’individuo.
Infine, uno sguardo ai destinatari del diritto. Ha avuto modo di avere a che fare con i giovani cittadini cinesi e capire quali sono per loro le principali sfide e gli ostacoli nel Paese?
I miei studenti in Cina sono molto aperti di mente e molto pratici. Elementi della cultura occidentale arrivano sempre in modo più abbondante. Nonostante la censura, i cinesi viaggiano, il governo incoraggia lo studio all’estero con borse di studio, così come incoraggia gli studenti stranieri ad andare a studiare in Cina.
I giovani hanno un approccio pragmatico, per cui pensano a trovare lavoro, a guadagnare, a crescere, a comprare casa. Il dibattito astratto sui diritti individuali in Cina non lo percepisco molto. Percepisco invece questioni legate al riconoscimento dei diritti sulla base delle condizioni sociali concrete. Qui ritornano tutti quegli elementi che modificano quei diritti fondamentali come li conosciamo noi occidentali. Ad esempio, la questione della libertà individuale e la politica del figlio unico, che si è trasformata nel tempo, ed ora sono i giovani a non volere più di un figlio, nonostante la riforma legislativa, perché sono cambiate le condizioni sociali. Tutto va calato nel contesto socioeconomico del paese.
Uno dei fattori positivi riconosciuti dai giovani è la crescita economica. Il governo riesce, nonostante i problemi recenti, ad assicurare una crescita, efficienza, innovazione. Questi sono tutti fattori attraenti anche per gli stranieri, la Cina è dinamica. Questa crescita nutre una nuova ondata di orgoglio nazionale, che al tempo stesso si mescola con un nazionalismo indotto.
E c’è un legame con la partecipazione attiva al Partito?
I membri del Partito Comunista sono poco più di 90 milioni. Per diventare membro bisogna superare un esame. Al tempo stesso c’è un dovere costituzionale di partecipazione alla causa socialista, per cui ogni cittadino ha il dovere di difendere la madrepatria, di non agire contro il processo di costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi, di difendere l’onore della patria ecc., per cui una partecipazione collettiva c’è. Questo spiega anche vari fenomeni del mercato. Ad esempio, quando la pubblicità di un marchio occidentale urta la sensibilità culturale cinese, il prodotto viene subito tolto dagli scaffali e dalle piattaforme di commercio elettronico.
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